C’era una volta a Catania “il diritto delle ‘ntuppatedde”, una tradizione raccontata anche da Giovanni Verga nella sua novella “La coda del diavolo”. Un momento importante durante il quale le donne avevano la possibilità di liberarsi dalla propria sudditanza al maschio.
In una Sicilia prettamente patriarcale, infatti, dove padre e marito avevano la quasi totalità decisionale sulla donna, vi erano due giorni, in occasione della festa di Sant’Agata, dove ci si poteva impadronire di se’ stesse e far valere i propri diritti. La tradizione narra che, tra il ‘600 e la fine dell’800, in occasione della festa di sant’Agata le donne potevano uscire con il vestito più bello che avevano chiedendo in giro doni o “importunando” qualcuno. Per riuscire nella loro missione, le ‘ntuppatedde si coprivano completamente con abiti neri, evitando di essere riconosciute, e lasciavano solo un particolare scoperto.
[…] Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo (…) Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore).[…]
Pian piano, questa usanza venne insabbiata facendone affievolire il ricordo nelle menti di molti cittadini, ma qualche anno fa, per l’esattezza nel 2013, l’artista e performer Elena Rosa è riuscita a far riemergere quell’inno alla libertà.
Così, per le strade catanesi si aggirando nuovamente delle donne intabarrate, questa volta con abiti bianchi, che tengono in mano un fiore rosso per rivendicare la libertà d’essere donne.
“Le ragioni che ci spingono a fare quello che facciamo non sono facilmente spiegabili – dice Elena Rosa -. Non siamo la ripresa di una tradizione, ma un rito che si ripete ogni anno ispirandosi ad una tradizione perduta. Quello che ci interessa è il movimento e il cambiamento sul piano simbolico, poetico e relazionale. Siamo state una sorpresa, adesso siamo un’attesa”.